Vi siete mai chiesti perché quando proviamo uno stato di noia, sopraffazione, scoramento istintivamente alziamo gli occhi al cielo?
Personalmente credo sia una sorta di retaggio ancestrale, una memoria del corpo così scolpita nel nostro essere da aver perso il significato originario ma tale da essere stata interiorizzata pronta per affiorare all’occorrenza. Guardiamo in sù per chiedere aiuto a qualcosa, per implorare supporto, per trovare il coraggio di andare avanti e superare una situazione che ci crea disagio, pr cercare il conforto necessario e la consolazione di cui abbiamo bisogno. Un gesto inconsapevole alla ricerca di sostegno e sollievo, come fare un respiro profondo che allievi la tensione.
L’alto è il luogo della ricerca di una direzione, del desiderio e della consolazione. L'alto è il luogo dei sogni, delle speranze e delle preghiere. Alziamo gli occhi al cielo pieni di domande, alla ricerca di risposte. Alziamo gli occhi al cielo e troviamo le nuvole.
Chi di voi da piccolo non ha mai alzato gli occhi al cielo per osservare le nuvole? Draghi, castelli, facce di demoni e dei personaggi dei cartoni animanti, treni in corsa, mani che si protendevano. Le immagini prendeno corpo sotto i nostri occhi e poi si mischiano, si sciolono, tornano ad essere nuvole prima di scomparire all’orizzonte.
Si chiama pareidolia, l’illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme conosciute le forme casuali, le macchie, gli oggetti che i nostri occhi incontrano. E’ un riflesso automatico, un processo inconsapevole che il nostro cervello compie continuamente.
Si tratta anche in questo caso di un residuo ancestrale di cui siamo impregnati legato alla necessità di sopravvivere e di riconoscere istintivamente la presenza di un predatore mimetizzato. Un retaggio evolutivo del nostro immaginario che la pubblicità e la comunicazione visuale hanno studiato e sfruttato abbondantemente, un meccanismo residuale nel nostro modo di codificare la realtà e di darle senso che la psicologia ha identificato e utilizzato nei processi di analisi, come nel caso delle macchie di Rorschach.
Guardiamo una nuvola ma vediamo una forma e a quella forma diamo un senso.
E questo perché se guardare è un atto fisico, una funzione passiva, una percezione e semi contestuale codifica di uno stimolo luminoso fatta dal nostro cervello, vedere è un atto creativo interpretativo. E' in questo atto creativo, nella creatività intrinseca all’atto del guardare che risiede l’efficacia di questo gioco, semplice e intuitivo, un esercizio divertente, meditativo, introspettivo al quale ho dato il nome di Cloud Poetry.
Pareidolia è “vedere ciò che non c’è”, già di per sè è un atto poetico, Credo sia per questo che ho sentito istintivamente il richiamo della poesia che da sempre permette all'uomo di rendere visibile l’invisibile.
Con la Cloud Poetry guardiamo una nuvola di parole, ma vediamo una poesia e le diamo forma.
foto StockSnap da Pixabay